Locus Festival, si parte con i Sigur Rós
L’ attesa è di quelle lunghe e interminabili, quantificabile solo nel momento in cui, guardandomi indietro, il tempo non è più solo quarta dimensione dello spazio-tempo ma un gravoso peso emotivo.
Non ricordo la prima volta che mi sono imbattuta nei Sigur Rós, forse tutto merito del film Vanilla Sky o su consiglio di un amico prezioso, che negli anni mi ha tramandato e lasciato in eredità tesori cinematografici e musicali senza tempo. Da quel momento, li ho amati in maniera viscerale: amo le lunghe code strumentali, gli esercizi di stile, i viaggi immaginari, l’emotività che prevale sulla fisicità, il misticismo e la magia. Quel saper toccare quelle precise corde dell’anima in maniera assoluta e totalizzante; “la speranza” nel cantato e in qualcosa non di migliore ma di necessariamente possibile.
Potrei definirli un “amuleto” da portare con sé nelle notti buie e tempestose così come nei giorni soleggiati e di apparente quiete. Un “Vegvísir”, così gli scandinavi chiamano il loro talismano, conosciuto come bussola runica e presente nel Manoscritto di Huld. Sul volume è riportato questo testo: «Se qualcuno porta con sé questo simbolo, non perderà mai la propria strada nella tempesta o nel cattivo tempo, anche se percorre una strada a lui sconosciuta».
Ed eccomi qui per la terza volta con il mio “Vegvísir” tra le mani. Questa volta sotto un piccolo faro in pietra sul molo della zona più antica del Porto di Bari, in una serata di luglio dall’aria irrespirabile, resa sopportabile solo dagli sporadici abbracci della brezza marina. Il mio obiettivo è quello di lasciarmi avvolgere completamente dalla loro aurea magica, una perfetta combinazione di musica sperimentale, sonorità orchestrali e ambient, distorsioni noise delle chitarre ed elettronica minimale, una musica emozionante e dall’incredibile forza espressiva.
Sul palco avvolto completamente da un denso fumo bianco ci sono, oltre agli strumenti, “candelabri” di diverse altezze che creano effetti visivi e giochi prospettici e, sullo sfondo, un grosso telo su cui si alterneranno forme luminose dai colori sgargianti e scenari dalla grande potenza estatica in slow motion. Dall’alto si proiettano verso il basso, a mo’ di tende, piccoli gruppi di lunghe corde parallele che sezionano la scena ricordando ora una splendida voliera ora un’angusta prigione. – Questa dicotomia, queste sensazioni opposte e contraddittorie mi accompagneranno e perseguiteranno per tutto il concerto: yin e yang, distopia-utopia, resistenza-esistenza immaginando il mondo) -.
L’apertura è dolce e inconfondibile, la voce di Jónsi sulle note di Glósóli, in un graduale crescendo, ci proietta subito in territori lontani tra paesaggi sconfinati e distese incontaminate. Si susseguono Vaka, Svefn-g-englar, Ekki múkk, tutto scorre con armonia e fluidità. La serata è un “Hoppìpolla” ora nel passato ora nel presente attraversando scenari di sconfinata bellezza e malinconia: la pace di foreste sommerse, il silenzio di spiagge deserte, la poesia e il mistero di vecchi ruderi abbandonati.
Il cantato abbraccia l’intero porto, le melodie e l’atmosfera rarefatta fanno sì che il live sia a tratti incantato e sognante, a tratti violento e inesorabile come un fiume in piena. Io vengo pervasa da un senso di smarrimento misto a curiosità e angoscia. Sono nel deserto, sulle rive di un fiume in piena, in alta montagna, in una fredda prigione, in un sottoscala, in una bolla di pesci rossi, in una discarica che si estende a perdita d’occhio, in un labirinto senza via d’uscita. Il terzetto islandese rapisce e confonde, l’Hopelandic è il loro grido disperato. Un sogno lucido capace di evocare continui scenari mai identici tra di loro e di risvegliare le emozioni più primordiali. Tra proiezioni e viaggi nel tempo lo spettacolo dei Sigur Rós continua con Ný batterí, Ylur, E-Bow. Con Sæglópur e il crescendo di batteria ci ritroviamo smarriti in mare aperto ma nessuna paura, questa volta il mare è calmo e intende trasportarci verso magnifiche terre inesplorate. Eppure non c’è da essere tranquilli. Sul finale, la batteria di Orri Páll Dýrason, l’archetto sulla chitarra di Jónsi e i giri di basso di Georg Holm con quella ricchezza di suono, quell’intensità e quella potenza ci riportano su una spiaggia di dune, in un contesto surreale, dove un vento improvviso e violento si alza per trascinarci via. Nubi e tempesta si alternano in un crescendo sempre più avvolgente, mentre in lontananza un bambino costruisce un castello di sabbia che ci consentirà di metterci in salvo.
“Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. […] quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. E’ qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l’unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto, e chiudendo forte gli occhi per non far entrare la sabbia. Attraversarlo, un passo dopo l’altro. Non troverai sole né luna, nessuna direzione, e forse nemmeno il tempo. Soltanto una sabbia bianca, finissima, come fatta di ossa polverizzate, che danza in alto nel cielo. Devi immaginare questa tempesta di sabbia.
E naturalmente dovrai attraversarla, quella violenta tempesta di sabbia. E’ una tempesta metafisica e simbolica. Ma per quanto metafisica e simbolica, lacera la carne come mille rasoi. […]
Poi, quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato. Sì, questo è il significato di quella tempesta di sabbia”. Kafka sulla spiaggia – H. Murakami
Setlist:
Glósóli
Untitled #1 – Vaka
Svefn-g-englar
Ekki múkk
Ný batterí
Ylur
Untitled #6 – E-Bow
Sæglópur
Untitled #7 – Dauðalagið
Fljótavík
Festival
Kveikur
Untitled #8 – Popplagið
Fotografie di Iolanda Pompilio