“Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante. Mio padre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più di un cantante”. Lo affermava Francesco Guccini nella sua “L’Avvelenata” del lontano 1976, tornata sui tabloid nazionali proprio negli ultimi giorni. Pacta sunt servanda: quando il cantautore emiliano ha capito che era finito il carburante, in pensione c’è andato per davvero lasciando ai suoi tanti ascoltatori e “fedeli” la consapevolezza di una scelta ragionata, voluta e sentita – anche perché la laurea era già arrivata nel 2002 dall’Alma Mater, honoris causa in Scienze della Formazione.
È vero che ogni buon musicante fa la sua arte prima per sé e poi per gli altri, altrimenti allo stesso Guccini non sarebbe mai saltato in mente di buttare giù quel testo che sa di pranzo rancido dell’Epifania; ma chi vive on stage lo sa bene che senza pubblico non esisterebbe neppure nei sogni proibiti di un discografico. E si ha la presunzione di aggiungere che la star dovrebbe conservare l’autenticità di questo mantra fino alla fine dei suoi giorni o delle sue note, perché l’artista è tale dal momento in cui crea una community attorno ai suoi manufatti. Se questa comunità si sgretola, rischia di crollare tutta la convinzione di un’esistenza trascorsa a cantare i margini.
Eppure di dinosauri ne stanno camminando parecchi sui palchi italiani negli ultimi anni, primo fra tutti Roger Waters (personcina mica tanto dolce di sale), che con un’umiltà disintegrante nei concerti del 2022 e del 2023 si è dato al pubblico americano ed europeo con un approccio “da bar” nel vero senso della parola, nonostante i fendenti politici che lo attanagliano a giorni alterni. Lo stesso climax pianoforte-voce-artisti-tutti-attorno che è riuscito a portare sul palco anche Eric Clapton nel suo ultimo tour, sfruttando poche luci scenografiche e anche un’esigua trattazione in chiacchiere con la platea, pur restando sempre rispettoso, nei modi e nella scaletta, di chi risale e scende l’Italia per sentire del semplice Blues, in fin dei conti…
“Hurricane”, “Like a Rolling Stone”, “Mr. Tambourine Man”, “Lay Lady Lay”, “Knockin’ On Heaven’s Door”, “Blowin’ in the Wind”: non ne ha cantata neanche una, nonno Bob. Gli si vuole bene, però: pareva a casa sua in vestaglia, accompagnato da musicisti eccezionali. Se dalla platea e dalle gallerie si fosse riuscita a vedere la sua faccia anche solo per un istante, qualcuno gli avrebbe portato un caffè con maritozzo alla panna e giornale, magari. Sì, si sapeva già che sarebbe stato un tour con una prevalenza di canzoni nuove dell’album del 2020 che dà il nome alla baracca stessa, ma si sanno tante cose nella vita – e, prontamente, la vita smentisce. Se è vero che la forma è sostanza, in questo caso lo è stata sino all’estrema ratio.
Due ore serrate di concerto, inglese biascicato da nordamericano come piace a lui, solo piano e niente chitarra, nessun bis dopo la standing ovation d’ufficio, zero parole (o quasi) cantate dal pubblico della Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Un uso assolutamente incomprensibile delle luci diegetiche in sala nelle prime fasi dello spettacolo, un’atmosfera “da bar” riuscita malissimo a causa dell’eccessiva vicinanza dei membri della band, indistinguibili al buio dei timidi riflessi di neon rossi e lampadine paglierine comprate dal cinese sotto casa, che ricordavano più il Red Light District di Amsterdam che non un intimo club di periferia dove ascoltare musica. E poi una cosa abbastanza brutta c’è stata per davvero: neanche un “Buonasera, grazie per essere venuti”. Com’è che dicono a Roma…? “Speravo de morì prima”.
È una questione di educazione, e “buonasera” lo dici al pubblico anche se ti chiami Bob Dylan, hai 82 anni, e hai vinto tutto quello che potevi vincere. Ma si possono dire queste cose su Bob Dylan? Sembra come bestemmiare, a leggere i giornali di questi giorni, da cui emerge “Un santo, un apostolo” – avrebbe detto Fantozzi per timore riverenziale. Vero è che il cantautore in questione non ha mai brillato per la capacità di coinvolgimento del pubblico, quindi grosse novità non ce ne sono state a ‘sto giro, ma qualche recensore imprudente in rete lo si trova. O audace? Il crollo di un mito (?) è costato 90 euro agli spettatori della piccionaia e una cifra astronomica ben più sopra dei 200 al pubblico “colto” della platea, che ha in parte sconfinato le poltrone negli ultimi minuti di concerto per riversarsi sotto Dylan durante il suo ultimo (e unico, sic!) solo di armonica a bocca su “Every Grain of Sand”. Dopodiché, il Messia ha rivelato la sua sagoma restando ben dietro il proscenio per pochi secondi, insieme ai suoi compagni d’avventura.
Non è questo il luogo né l’epoca per discutere della musica in sé: nessuno al mondo sta aspettando il giudizio sul mito. Il concerto, sotto il profilo strettamente tecnico, è stato perfetto: musica eccezionale, strumentisti perfetti, testi “pieni” (per chi li ha decifrati), voce che tiene ancora botta nonostante gli 82 anni (chapeau, nonno Bob), e acustica da paura – ma quest’ultimo merito va a Renzo Piano più che allo statunitense.
Bob Dylan è Bob Dylan dalla notte dei tempi, se l’è sempre tirata un po’ ma forse l’età della pensione è arrivata anche per lui. Quando un uomo non regge l’emozione dei suoi simili, smette di incrociare quei tre accordi maledetti di “Knockin’ On Heaven’s Door” e dà – metaforicamente, ma non troppo – le spalle al pubblico. È così che molti (non si ha la pretesa di parlare per tutti) hanno percepito il concerto: “Io so io, e voi non siete un cazzo”, sin dal momento in cui ai costituendi spettatori è stato insacchettato ermeticamente lo smartphone, nel foyer della sala madre del Parco. Sì, perché il Marchese del Grillo ha optato per l’estrema unzione dei telefoni: vietato non solo fare foto e video, ma anche guardare l’ora o giocare a Ruzzle per resistere ai colpi di sonno dopo la prima ora (si scherza, cari fan). È vero: ritrovarsi in teatro a combattere con una miriade di persone che si accavallano fra riprese penose, whatsapp compulsivi e improrogabili telefonate di Biden in persona, è per così dire “antipatico”. Sarebbe bastato un generico divieto di uso del telefono con tempestivo intervento “laser” delle maschere in caso di infrazione, ma addirittura sigillare l’apparecchio… Ti vogliamo bene Bob; certe follie si fanno solo per amore.
Non è tanto l’attitudine fandom di chi è corso sotto la platea che fa riflettere (da cui il cronista deve sempre prendere le debite distanze), quanto l’opportunità delle scelte assunte da Bob Dylan in totale autodichia per il tour “Rough and Rowdy Ways”, che in questi giorni ha risvegliato tanti appassionati da tutta Italia, pronti a godersi uno dei più grandi parolieri della storia della musica moderna che ha solcato i palchi di Milano, Lucca e Perugia oltre che di Roma; tutte venue sold out dopo cinque minuti o pochi giorni dalla vendita aperta in presale da Virgin Radio lo scorso 17 marzo.
Dulcis in fundo? Se c’eri, puoi dire di aver visto Bob Dylan dal vivo, ma non deve essere andata male a coloro che hanno preferito gli islandesi Sigur Rós nella Cavea del medesimo Parco, pochi metri più in là. Sarebbe assurdo voler dare un giudizio all’artista: si sta parlando di Bob Dylan; la leggenda Bob Dylan. Ma il concerto, alla fine, lascia un amaro in bocca che sarebbe comparabile soltanto a un’esibizione della buonanima di Leonard Cohen, semmai nel metaverso avesse deciso di omettere “Hallelujah” o “Chelsea Hotel #2” dalla sua scaletta. È stato un po’ come andare al Louvre senza vedere la Gioconda.
La canzone d’autore ha sconvolto il Novecento fra moti rivoluzionari, scoperte sessuali e preconizzazioni di generi inesplorati. A Bob Dylan gli si perdona tutto per dovere storico di chi ha sentito i brividi sulla sua pelle almeno una volta ascoltando un suo brano, però… Quid ius? “The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind”.
Le strade epistemologiche a questo punto diventano due: o persino le canzoni attorno ai falò estivi suonate con chitarre avvinazzate e amori scordati sono destinate a cambiare, o il genio di Bob Dylan in questo show al sapore di “a mai più” si dovrà interpretare come una performance contemporanea, dove l’artista cerca di proposito la distanza da un pubblico in cui non si riconosce più, poiché inaridito dall’alienazione dei tempi che corrono. Una distanza che, in tal caso, significherebbe: “Io almeno ci ho provato a farvi concentrare su qualcosa di nuovo. Lasciate quei telefoni, storicizzate il Novecento e datevi da fare per raccogliere il mucchio d’ossa di quest’occidente sull’orlo di una crisi di nervi”.
A fine concerto: la fila per disincagliare lo smartphone, 62 WhatsApp, 2 chiamate perse, 12 notifiche su Facebook, 7 notifiche su Instagram (4 reaction e 3 direct), 1 notifica su TikTok, 3 Gmail promozionali, una birra media e un’altra tacca sul dannato fucile del Rock.
Testo di Simone Calienno
Fotografie dal web, ad eccezione foto di copertina di Simone Calienno